È di valore e di buon senso
Sono appena tornato da un viaggio in Sicilia, dove ho rivisitato
alcune delle zone, in cui ero stato circa 50 anni fa, alla ricerca di credenti
evangelici. Ho visitato e insegnato la Bibbia in quattro città dove, 50 anni fa, non
c’era una testimonianza evangelica.
Per lo più, ho trovato sale piene di fratelli e sorelle
in Cristo, pieni di zelo, di gioia e di riconoscenza per il Vangelo che è stato
predicato loro ed a cui hanno creduto. Ho trovato dei fratelli, riconosciuti
come “anziani” e responsabili delle chiese, dotati di una buona conoscenza
della Bibbia e animati da un forte desiderio di guidare la chiesa in un cammino
di fedeltà biblica, sia per la dottrina, sia per la pratica.
Questi cambiamenti di vita non sono stati vissuti senza
trovarsi in contrasto, e spesso con un urto frontale, con alcuni aspetti della
cultura e delle abitudini radicate, addirittura da secoli, nella vita
tradizionale della popolazione siciliana.
Fra questi, i contrasti religiosi. Ancora in molte
località, le feste dei santi, e particolarmente dei patroni della città, sono considerate
una parte del tessuto sociale che coinvolge tutti in manifestazioni pubbliche
della “fedeltà” alle usanze e alle rivalità antiche. Non partecipare è già una
colpa religiosa e civile. Dichiarare addirittura che non si crede più ai santi
e alla loro capacità di procurare vantaggi per i fedeli è considerato un tradimento.
Questo tipo di usanze e di credenze una volta
coinvolgevano tutta l’Italia, ma, sotto la pressione di cambiamenti e di
convinzioni nuove, stanno scomparendo. Si tratta di un progresso, come civiltà
o come vita religiosa? Non necessariamente.
Purtroppo, molti italiani, tanti italiani, non solo si
allontanano dalle tradizioni e le pratiche religiose che i loro antenati
seguivano fedelmente, ma fanno un passo ancora più grande. Mettono in dubbio,
se non la rifiutano del tutto, l’esistenza di un Dio che, nella sua perfezione
infinita, conosce e si interessa delle persone, della loro condotta, della loro
fede e del loro destino eterno.
La maggioranza degli italiani non è ancora pronta a
definirsi “atea”, ma il suo modo di pensare e di vivere è, in pratica,
un’ateismo vero e proprio anche se non ancora definito e professato come tale. Non
si accettano più, e non ci si sottomette più, a “regole” morali insegnate dalla
chiesa o imposte da un’autorità divina.
Chi ha fatto questo passo ancora si riempie spesso la
bocca di parole come “spiritualità” o cristianesimo, dicendo che la sua
spiritualità è una realtà personale ma non religiosa, o che il suo
cristianesimo non è più quello della chiesa, ma dello spirito, basato sugli
insegnamenti di Cristo.
Respinge non solo il cattolicesimo o il cristianesimo, ma
qualsiasi religione organizzata.
Dal mio punto di vista, conversare sulla Bibbia, sulla
fede e sulla vita eterna è immensamente più facile con un cattolico romano
praticante che con queste persone convinte che l’unica verità che conta sia
quella che hanno inventata e abbracciata loro.
La loro “religione personale” è l’unica che li interessa,
e parlarne con altri non è né necessario né possibile. Vista da fuori, è una
religione che richiede poco o niente, né come moralità né come rinunzia né come
ragionamento. Il suo pregio è il senso di conforto e di auto-sufficienza che
dona loro, immune alle critiche o al giudizio di alcuno.
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