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È meglio la cura o la prevenzione?
Non c’è dubbio. È molto meglio evitare di cadere in una buca che trovarcisi dentro e cercare di uscirne.
E la depressione è proprio una forma di caduta nella buca. Una buca così profonda che non si può vedere cosa c’è fuori. Tu sei solo, profondamente solo, e ti sembra che nessuno ti possa aiutare a guardare fuori o, tanto meno, uscire. Allora, cosa si fa? Si sta seduti nella buca, lamentandosi della solitudine, del freddo o del caldo, dell’impossibilità della situazione, della mancanza di amici disposti o capaci a tirarci fuori.
Qualcuno ha chiamato la depressione il male della meditazione sul proprio ombelico. In altre parole, è un male in cui ti concentri morbosamente su te stesso. E rifiuti di pensare ad altro se non alla tua situazione.
Spesso ti valuti male, o intrinsecamente o perché credi di essere tanto debole da non potere evitare o uscire dalla depressione. Ti guardi e conti tutti i tuoi difetti, veri o immaginari. Fai l’inventario di tutti gli sbagli che hai fatto nella vita. Poi, si passa a raccontarsi, con abbondanza di dettagli, le ingiustizie subite nella famiglia, dagli amici o da altri.
Se sei credente, preghi che Dio te ne liberi, ma non vedi nessun miglioramento e decidi che anche Dio ti ha abbandonato.
Spesso, fra le preoccupazioni e le paure infondate, c’è quella della morte. Si immaginano tutti i sintomi delle malattie più temibili, dal cancro alla pazzia, al mal di cuore e si passano ore sull’attenti per scoprire se qualche sintomo stia peggiorando.
Non è sorprendente che alcune persone dicano che si trovano nelle pene dell’inferno e che l’unica soluzione è cercare di dormire, di evitare di pensare, di riempirsi di calmanti.
Ma, torniamo alla domanda: è meglio curare o prevenire? Ovviamente, tutti direbbero che è meglio prevenire, ma chi è depresso crede di essere arrivato al punto in cui si trova senza alcuna colpa propria.
L’apostolo Paolo, nelle sue epistole, offre tantissimi consigli sul comportamento e sull’uso della mente che sono tutti utilissimi per aiutare la persona che, di carattere o per cadute passate, è più in pericolo di finire depressa. Forse uno dei più belli è questo:
“Rallegratevi nel Signore. Ripeto: rallegratevi!” Per potere rallegrarsi, bisogna considerare con attenzione quelle cose nella vita, anche piccole, che sono delle benedizioni di Dio, anche se altri (i non-credenti) potrebbero non capire o vedere in esse la mano di Dio. Chi cerca giorno per giorno di riconoscere le benedizioni immeritate che riceve e, a proposito, se ne rallegra, si cura e sviluppa una qualità positiva che può servire per prevenire la depressione.
Nello stesso passo, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo incoraggia il credente: “Il Signore è vicino. Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti”.
Che cosa ne risulterà? “La pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà il vostro cuore e i vostri pensieri in Cristo Gesù”.
Ma l’apostolo non si ferma qui con i suoi consigli a chi è soggetto alla depressione. Aggiunge: “Quindi, fratelli, tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui vi è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri”.
Probabilmente, per fare questo, troverai utile spegnere la radio e la televisione, che sono spesso piene di notizie cattive, spaventevoli e deprimenti. Potrai trovare utile, quando possibile, ascoltare la musica, fra cui molti vecchi inni della chiesa, che contengono testi di incoraggiamento e di lode. Puoi cercare di ricordare e cantare le parole di questi inni.
Come vedi, star seduti a osservare il proprio ombelico non è necessario e, infatti, guardare sempre te stesso, i tuoi problemi e difficoltà (anche se ne hai), non è la volontà di Dio per te.
Nel prossimo blog, rivelerò un altro punto da considerare se tu sei soggetto alla depressione.
mercoledì 25 marzo 2009
martedì 17 marzo 2009
Esiste una cura cristiana?
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Il grande problema della depressione
Decine di migliaia di italiani sono considerati ammalati di depressione. Ma la depressione è una malattia? È un male fisico, mentale, emotivo o spirituale? In effetti, la difficoltà nel definire la depressione è che può essere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.
La depressione non è, ovviamente, soltanto una giornata che ti va storta. E non è neanche la tristezza che senti, giustamente, per un decesso in famiglia o un contrattempo personale. Questo tipo di tristezza può durare una settimana o un mese, ma, poi, passa.
La vera depressione, invece, attacca le abitudini e la salute. Non si vuole più uscire o frequentare le persone e i luoghi di prima. È causa di cambiamenti nel mangiare, troppo o troppo poco, nel dormire, troppo o troppo poco, nel movimento, spesso troppo poco.
Oggi, nella nostra società frenetica, neanche gli psicologi della mutua hanno il tempo per ascoltare e capire chi si presenta loro depresso. Una ricetta, calmanti o antidepressivi, e avanti il prossimo. Le medicine non guariscono, ma “curano”, facendo sentire il paziente meno depresso, nella speranza che, col tempo, la depressione passi. E, spesso, ciò basta. Tante depressioni, infatti, passano, con o senza medici, psicologi e medicine.
E il credente? Puo essere depresso? Certamente. Dopo tutto, è un essere umano, con sentimenti, emozioni, scoraggiamenti, possibili squilibri ormonali o altro, esattamente come il suo vicino non credente. Perciò, non diciamo al fratello o alla sorella in fede depressi: “Su, su, il Signore è con te! Rallegrati nel Signore”.
Le cose non sono così facili. E non è un peccato, o un segno di poca spiritualità, cadere nella depressione.
Ti ricordi l’esperienza del profeta Elia, che ebbe una grande vittoria spirituale contro i profeti di Baal, ma poi fuggì impaurito dalle minacce della regina e finì nel deserto, in uno stato evidente di depressione, esclamando a Dio: “I figli d’Israele hanno abbandonato il tuo patto. Sono rimasto io solo e cercano di togliermi la vita!”
Dio gli ha offerto una cura adatta e, nelle circostanze, miracolosa. Dio l’ha fatto dormire (era esausto), gli ha dato da mangiare e da bere (era certamente affamato e disidratato) e, poi, gli ha fatto capire e sperimentare la sua presenza e la sua potenza. Elia era di nuovo pronto a ripartire per servire il Signore. La cura di Dio fu molto pratica, sia dal punto di vista materiale che da quello spirituale.
Purtroppo, uno dei sintomi più crudeli della depressione è proprio quello sperimentato da Elia. Si tende a guardare solo a se stessi, con un’attenzione quasi morbosa alle proprie debolezze, ai propri fallimenti e alle minacce o ingiustizie subite. Si hanno delle paure infondate e si interpreta tutto in senso negativo.
Perciò, è giusto vedere il problema anche come psicologico e emotivo.
Però, per il credente, si può trattare anche di un problema spirituale. Si perde, infatti, fiducia nel Signore, guardando ai propri problemi. Si vedono ingigantite le difficoltà e gli ostacoli, e si rimpicciolisce Dio e la sua capacità (e anche, forse, la sua volontà) di intervenire.
Ricordo una ragazza universitaria che, poco tempo fa, è riuscita male in un esame e, poi, ne ha saltati altri. Alla fine, aveva paura di presentarsi agli esami e ha smesso anche di studiare, proprio per dimostrare che non ce la faceva a continuare gli studi. Che sconfitta paurosa per una nuova credente! Era proprio depressa.
Grazie a Dio, ha accettato la sfida a rimettersi a studiare più forte possibile (anche se le sue emozioni le dicevano che era tutto inutile) e a presentarsi al prossimo esame, anche se credeva di fallire spaventevolmente. Che bello! È riuscita bene, proprio ai livelli di prima. Ed era sicura che era stato Dio ad aiutarla ad avere calma e a ricordare la materia. E anch’io sono convinto che aveva ragione.
Ne riparliamo la prossima volta. Se tu sei depresso o conosci chi lo è, affidati al Signore nella preghiera e Dio potrà intervenire.
Il grande problema della depressione
Decine di migliaia di italiani sono considerati ammalati di depressione. Ma la depressione è una malattia? È un male fisico, mentale, emotivo o spirituale? In effetti, la difficoltà nel definire la depressione è che può essere un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.
La depressione non è, ovviamente, soltanto una giornata che ti va storta. E non è neanche la tristezza che senti, giustamente, per un decesso in famiglia o un contrattempo personale. Questo tipo di tristezza può durare una settimana o un mese, ma, poi, passa.
La vera depressione, invece, attacca le abitudini e la salute. Non si vuole più uscire o frequentare le persone e i luoghi di prima. È causa di cambiamenti nel mangiare, troppo o troppo poco, nel dormire, troppo o troppo poco, nel movimento, spesso troppo poco.
Oggi, nella nostra società frenetica, neanche gli psicologi della mutua hanno il tempo per ascoltare e capire chi si presenta loro depresso. Una ricetta, calmanti o antidepressivi, e avanti il prossimo. Le medicine non guariscono, ma “curano”, facendo sentire il paziente meno depresso, nella speranza che, col tempo, la depressione passi. E, spesso, ciò basta. Tante depressioni, infatti, passano, con o senza medici, psicologi e medicine.
E il credente? Puo essere depresso? Certamente. Dopo tutto, è un essere umano, con sentimenti, emozioni, scoraggiamenti, possibili squilibri ormonali o altro, esattamente come il suo vicino non credente. Perciò, non diciamo al fratello o alla sorella in fede depressi: “Su, su, il Signore è con te! Rallegrati nel Signore”.
Le cose non sono così facili. E non è un peccato, o un segno di poca spiritualità, cadere nella depressione.
Ti ricordi l’esperienza del profeta Elia, che ebbe una grande vittoria spirituale contro i profeti di Baal, ma poi fuggì impaurito dalle minacce della regina e finì nel deserto, in uno stato evidente di depressione, esclamando a Dio: “I figli d’Israele hanno abbandonato il tuo patto. Sono rimasto io solo e cercano di togliermi la vita!”
Dio gli ha offerto una cura adatta e, nelle circostanze, miracolosa. Dio l’ha fatto dormire (era esausto), gli ha dato da mangiare e da bere (era certamente affamato e disidratato) e, poi, gli ha fatto capire e sperimentare la sua presenza e la sua potenza. Elia era di nuovo pronto a ripartire per servire il Signore. La cura di Dio fu molto pratica, sia dal punto di vista materiale che da quello spirituale.
Purtroppo, uno dei sintomi più crudeli della depressione è proprio quello sperimentato da Elia. Si tende a guardare solo a se stessi, con un’attenzione quasi morbosa alle proprie debolezze, ai propri fallimenti e alle minacce o ingiustizie subite. Si hanno delle paure infondate e si interpreta tutto in senso negativo.
Perciò, è giusto vedere il problema anche come psicologico e emotivo.
Però, per il credente, si può trattare anche di un problema spirituale. Si perde, infatti, fiducia nel Signore, guardando ai propri problemi. Si vedono ingigantite le difficoltà e gli ostacoli, e si rimpicciolisce Dio e la sua capacità (e anche, forse, la sua volontà) di intervenire.
Ricordo una ragazza universitaria che, poco tempo fa, è riuscita male in un esame e, poi, ne ha saltati altri. Alla fine, aveva paura di presentarsi agli esami e ha smesso anche di studiare, proprio per dimostrare che non ce la faceva a continuare gli studi. Che sconfitta paurosa per una nuova credente! Era proprio depressa.
Grazie a Dio, ha accettato la sfida a rimettersi a studiare più forte possibile (anche se le sue emozioni le dicevano che era tutto inutile) e a presentarsi al prossimo esame, anche se credeva di fallire spaventevolmente. Che bello! È riuscita bene, proprio ai livelli di prima. Ed era sicura che era stato Dio ad aiutarla ad avere calma e a ricordare la materia. E anch’io sono convinto che aveva ragione.
Ne riparliamo la prossima volta. Se tu sei depresso o conosci chi lo è, affidati al Signore nella preghiera e Dio potrà intervenire.
martedì 10 marzo 2009
Può essere l’ingresso alla depressione
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DI CHI SEI VITTIMA?
Il numero di persone che si sentono vittime di qualcosa o di qualcuno è altissimo e pochi sanno che vivere con questo peso sulle spalle può portare alla depressione e al fallimento.
Ma, tu, di che sei vittima? Sei vittima di tuoi genitori? Di tuo marito o tua moglie? Dei tuoi figli, suoceri, parenti, vicini, colleghi, capi? Delle guide della tua chiesa?
C’è, forse, qualcuno che non ti apprezza o che ti disprezza, che ti sottovaluta, che dice che non sei buono a nulla, che sei negato, che non ti interessi degli altri né di te stesso?
C’è qualcuno che parla male di te ogni volta che può? Che ti prende in giro? Che ti accusa di egoismo, di opportunismo, di pigrizia, di poca spiritualità, di incostanza?
Quando ti convinci che l’insegnante, il professore, il capo ufficio, il vicino di casa ce l’ha con te, non ci vuole molto che questo diventi una cappa, un peso che ti deprime costantemente. Ti sembra che non sarà mai possibile stabilire la giustizia e la verità quando “gli altri” ti sono contro.
Ma ho scoperto una cosa stupenda, leggendo la Bibbia. Il vero credente non è vittima di nessuno! Mai!
Prendi ad esempio l’apostolo Paolo. Di gente contro ne aveva parecchia! È stato in prigione per due anni soltanto perché Felice, il governatore, sperava che lui o i suoi amici avrebbero pagato una sostanziosa somma per comprare la sua libertà. La bustarella non è un’invenzione moderna.
Paolo ha descritto la sua vita con queste parole: “disprezzato… ingiuriato…perseguitato… diffamato… la spazzatura del mondo… il rifiuto di tutti”. E, in un altro passo delle sue lettere racconta: “Battuto con le verghe, lapidato, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli, nella fame, nella sete, nel freddo e nella nudità”.
È vero che tu sei una vittima? Hai sofferto di più di Paolo, o anche come e quanto Paolo? No? Allora, dammi retta: non sei una vittima!
“Cosa diremo dunque riguardo a queste cose?” domanda Paolo. “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” Che vittima sei, se non sono le persone quelle che ti controllano, ma se è Dio stesso Colui che ti protegge e ti adopera alla sua gloria? Paolo scrive, subito dopo le parole citate poco fa: “Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui?”.
Quando Gesù è andato alla terribile morte della croce, è stato vittima o vincitore? Oppure crediamo che, per seguire Gesù, Dio deve garantirci una vita comoda, senza opposizione e oppositori?
Paolo parla delle esperienze di tanti credenti, nella storia della chiesa, che hanno sofferto “la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” e, poi, grida con gioia: “Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati!”.
La vittima, che vive nel suo “vittimismo”, crede che gli altri ce l’abbiano sempre con lui e, per di più, siano così forti da imporre su di lui le sofferenze che hanno inventate.
Paolo, invece, credeva che nessuno avrebbe potuto fargli qualcosa che Dio non avesse permessa. Era anche convinto che Dio controllava la sua vita in ogni particolare, perché risultasse alla sua gloria, mentre viveva con fede serena.
Dopo che Paolo aveva sofferto tanto da parte degli Ebrei, dei pagani, e dei Romani, mentre era prigioniero a Roma, scrisse: “Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo”.
La certezza che il credente in Cristo non è mai vittima gli permette di vivere con la convinzione che tutto contribuisce al bene. Chi crede e gioisce di questo difficilmente può cadere nella depressione.
DI CHI SEI VITTIMA?
Il numero di persone che si sentono vittime di qualcosa o di qualcuno è altissimo e pochi sanno che vivere con questo peso sulle spalle può portare alla depressione e al fallimento.
Ma, tu, di che sei vittima? Sei vittima di tuoi genitori? Di tuo marito o tua moglie? Dei tuoi figli, suoceri, parenti, vicini, colleghi, capi? Delle guide della tua chiesa?
C’è, forse, qualcuno che non ti apprezza o che ti disprezza, che ti sottovaluta, che dice che non sei buono a nulla, che sei negato, che non ti interessi degli altri né di te stesso?
C’è qualcuno che parla male di te ogni volta che può? Che ti prende in giro? Che ti accusa di egoismo, di opportunismo, di pigrizia, di poca spiritualità, di incostanza?
Quando ti convinci che l’insegnante, il professore, il capo ufficio, il vicino di casa ce l’ha con te, non ci vuole molto che questo diventi una cappa, un peso che ti deprime costantemente. Ti sembra che non sarà mai possibile stabilire la giustizia e la verità quando “gli altri” ti sono contro.
Ma ho scoperto una cosa stupenda, leggendo la Bibbia. Il vero credente non è vittima di nessuno! Mai!
Prendi ad esempio l’apostolo Paolo. Di gente contro ne aveva parecchia! È stato in prigione per due anni soltanto perché Felice, il governatore, sperava che lui o i suoi amici avrebbero pagato una sostanziosa somma per comprare la sua libertà. La bustarella non è un’invenzione moderna.
Paolo ha descritto la sua vita con queste parole: “disprezzato… ingiuriato…perseguitato… diffamato… la spazzatura del mondo… il rifiuto di tutti”. E, in un altro passo delle sue lettere racconta: “Battuto con le verghe, lapidato, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli, nella fame, nella sete, nel freddo e nella nudità”.
È vero che tu sei una vittima? Hai sofferto di più di Paolo, o anche come e quanto Paolo? No? Allora, dammi retta: non sei una vittima!
“Cosa diremo dunque riguardo a queste cose?” domanda Paolo. “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” Che vittima sei, se non sono le persone quelle che ti controllano, ma se è Dio stesso Colui che ti protegge e ti adopera alla sua gloria? Paolo scrive, subito dopo le parole citate poco fa: “Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui?”.
Quando Gesù è andato alla terribile morte della croce, è stato vittima o vincitore? Oppure crediamo che, per seguire Gesù, Dio deve garantirci una vita comoda, senza opposizione e oppositori?
Paolo parla delle esperienze di tanti credenti, nella storia della chiesa, che hanno sofferto “la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada” e, poi, grida con gioia: “Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati!”.
La vittima, che vive nel suo “vittimismo”, crede che gli altri ce l’abbiano sempre con lui e, per di più, siano così forti da imporre su di lui le sofferenze che hanno inventate.
Paolo, invece, credeva che nessuno avrebbe potuto fargli qualcosa che Dio non avesse permessa. Era anche convinto che Dio controllava la sua vita in ogni particolare, perché risultasse alla sua gloria, mentre viveva con fede serena.
Dopo che Paolo aveva sofferto tanto da parte degli Ebrei, dei pagani, e dei Romani, mentre era prigioniero a Roma, scrisse: “Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo”.
La certezza che il credente in Cristo non è mai vittima gli permette di vivere con la convinzione che tutto contribuisce al bene. Chi crede e gioisce di questo difficilmente può cadere nella depressione.
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