venerdì 23 luglio 2010

I preti per primi

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Una questione di autorità


I preti ed altri religiosi pensavano di avere trovato la domanda che avrebbe fatto tacere il loro nemico, che pretendeva di correggerli e criticarli.

“Chi ti ha dato questa autorità?” Ecco, la religione è questione di autorità e basta! I preti ed i teologi sono stati “autorizzati” e gli altri no, di parlare di religione.

Non lo avessero mai domandato!

“Sì, voi avete l’autorità… autorità di andare all’inferno!”

“Infatti”, continuò il suo pensiero Gesù, “gli ufficiali delle tasse, che rubano e mettono in tasca i soldi dati sottobanca, andranno in cielo prima di voi. Anzi, perfino le prostitute saranno in cielo mentre voi sarete fuori sperando di entrare!” (Puoi leggere il racconto preciso nel Vangelo di Matteo, 21:23,31,32).

Gesù non lo mandava a dire a nessuno. I “religiosi” non lo spaventavano, perché egli guardava loro diretto nel cuore e conosceva i loro pensieri immorali e materialisti.

Ma quale eresia è questo, che i grandi peccatori saranno accettati da Dio prima delle persone che praticano la religione senza sbagliare mai?

Che cosa può raccomandare prostitute e ufficiali corrotti a Dio, prima di quelle persone che sono note per la loro religiosità?

Una differenza c’è, ha detto Gesù. Quelli grossi peccatori si sono pentiti dei loro peccati ed hanno chiesto a Gesù di salvarli dal giudizio pesante che meritavano. Ma voi non ci pensate neanche ai vostri peccati, voi che credete che sarete i primi non solo in terra, ma anche in cielo, perché rappresentate “l’autorità”.

Una cosa che Gesù non accettava mai era la sicurezza di sé, l’orgoglio, l’autosufficienza di chi sembrava credere che Dio l’avrebbe accettato così com’era perché ne aveva diritto. Anzi, Dio avrebbe dovuto accettarlo per forza perché era assolutamente a posto.

Ma la Parola di Dio dice: “Non vi è alcun giusto, neppure uno”. Né preti cattolici né pastori evangelici né semplici credenti, nessuno può contare sulla sua nazionalità, sulle sue opere buone, sulla chiesa di cui fa parte, sul suo battesimo, sulla sua sincerità, sulla fede della sua famiglia, per garantirsi il cielo.

E tu, su cosa conti?
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martedì 13 luglio 2010

Vale la pena essere sincero?

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Non può cambiare la pelle

Vivere la vita cristiana, come è insegnata nella Bibbia, vale veramente la pena? Vedo molti credenti che, ovviamente, hanno considerato certi sacrifici, certi comportamenti che non seguono “l’andazzo” della nostra società, come troppo pesanti e inutili.

Sembrano credere che sia possibile, come credenti, cercare di imitare, mimetizzarsi, confondersi con gli altri senza venire meno alla professione sincera della propria fede. Anzi, dicono che soltanto facendo così ci si puo avvicinare i non credenti e testimoniare loro.

C’è del vero in questi ragionamenti?

Sì, purtroppo c’è del vero in queste autogiustificazioni. C’è quel tanto di verità che Satana usa sempre per fare ingoiare il suo veleno.

È vero che Gesù partecipò a certi pranzi offerti da non credenti, dove non era possibile per Lui approvare la vita vissuta da tutti gli invitati. Non condivideva la “fede” o mancanza di fede di chi lo aveva invitato.

Ma non credo che chi l’ha invitato, o gli altri presenti, avessero l’impressione che Gesù cercasse di nascondersi, imitando gli altri, facendo finta di essere uno di loro. E non direi che i vangeli indicano quei momenti come se fossero il suo metodo preferito di evangelizzazione.

Al contrario, mi sembra che il comportamento di Gesù, le cose che disse, le conversazioni a cui partecipava, non cambiassero affatto secondo l’ambiente in cui si trovava. Egli sapeva chi era: era venuto nel mondo per rivelare il Padre, per invitare i peccatori al pentimento e alla fede. Non si alzava in ogni occasione per fare una predica di mezz’ora, ma neanche taceva per non offendere qualcuno.

Il credente non può permettersi di cambiare pelle secondo la qualità o il credo della persona che ha davanti. Perché, se si togliesse “la pelle” da credente, nato di nuovo, coraggioso nella sua fede, umile nella sua persona, amorevole e veramente interessato al bene della persona con cui parla, farebbe bene a togliersi anche il nome di cristiano. Non sarebbe un autentico seguace di Cristo.

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martedì 6 luglio 2010

Pedofili per forza?

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Sarebbe meglio fermarli


Lo scandalo dei pedofili fra il clero della chiesa romana non sembra che stia diminuendo. Ed è giusto che sia così. Perché, fino ad ora, che io sappia, la chiesa non ha affrontato e confessato il suo vero problema.

Quanti pedofili sono stati scoperti e denunziati fra i preti e altri religiosi della chiesa romana? Non ho mai visto una statistica precisa, ma certamente alcuni pensano che si tratti di migliaia di persone. Ma il numero conta poco. La vera domanda non è: “Quanti sono stati scoperti e denunziati?” ma, piuttosto: “Quanti sono, quando includi tutti quelli che NON sono stati scoperti e denunziati?”.

A questa domanda non avremo mai la risposta. Si tratta di una domanda per cui la chiesa romana ha sistematicamente agito perché la risposta non fosse mai conosciuta.

La risposta non può essere rivelata perché nessuno la sa. Ma si può pensare che il numero di casi di pedofilia nella chiesa sia molto più alto di quanto non si è ancora detto.

Fra le migliaia di casi già denunziati, non solo i preti sono stati accusati, ma anche alcuni vescovi lo sono stati per avere nascosto le persone colpevoli, trasferendole in altre parocchie o altre dioscesi. E ciò non dovrebbe sorprendere nessuno.

Da tanti anni, più di quanti tu ed io ne abbiamo vissuti, la chiesa romana ha adoperato un sistema per cercare di arginare gli scandali, che si sono determinati al suo interno. Nota bene, non per evitare gli scandali stessi, ma per arginare l’effetto, la risonanza di peccati che, se conosciuti, avrebbero causato scalpore.

In quest’ultima ondata di denunzie riguardo alla pedofilia, si è scoperto che, metodicamente, quando uno scandalo stava per esplodere, nei riguardi di un sacerdote che aveva raggirato e sedotto dei bambini, il vescovo o un altro suo superiore religioso ne aveva disposto il trasferimento in un’altra parocchia o attività.

Il “pensiero” era che, dopo avere ricevuto, forse, una lavata di testa dal suo superiore, il prete errante avrebbe cambiato vita in un nuovo ambiente.

Il risultato era, comunque, diverso. Anzi, era il contrario. Normalmente, il pedofilo non smetteva né diminuiva i suoi abusi, ma li continuava allegramente fra i nuovi ragazzi e ragazze da sedurre.

E non ci vuole un genio per capirlo, o per prevederlo. È possibile che il vescovo che organizzava il trasferimento fosse l’unico a non conoscere i risultati del suo intervento? Chi ci crede è sciocco.

Difatti, è lo stesso stratagemma usato da sempre quando un prete si distingueva per avere sedotto delle giovani o delle mogli dei suoi parrocchiani, o per averne messa incinta qualcuna. Il suo superiore interveniva e quietamente, senza alcun chiasso, il prete si ritrovava il giorno dopo in un’altra parocchia distante dalla prima. Pentito e trasformato? Lascio a te ad indovinare.

Allora, io mi domando, se la prassi era mandare un prete pedofilo in un nuovo luogo in cui cercare la sua preda, chi aveva la maggiore responsabilità morale, il pedofilo che continuava il suo vizio altrove, o l’autorità che provvedeva a nasconderlo e a offrirgli delle nuove vittime?

Scrivo con odio per condannare qualcuno? No, solo con dolore per l’ipocrisia e il danno fatto al nome di Cristo.
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